VARESE Tra due settimane i 30 anni dalle prime apparizioni di Medjugorje e un varesino racconta in un libro la sua straordinaria guarigione tra cure e preghiere. Si chiama Antonello De Giorgio ha 52 anni, è direttore di banca e allenatore di basket, e tre anni fa, gli hanno diagnosticato il linfoma di hodgkin. De Giorgi da un paio d’anni gira l’Italia per testimoniare con il suo libro “Non sono ancora una foto sopra una lapide!” che si può guarire.
«Una storia autobiografica dal titolo provocatorio, ma è quello che pensavo quando incrociavo gli occhi degli altri mentre ero malato», spiega De Giorgio. Una storia la sua che è persino finita sul magazine “Chi”: «A dire la verità ero perplesso perché, parlando di fede, mi chiedevo se avesse senso apparire su un giornale di gossip. Poi, l’ho fatto perché io per scelta vado a testimoniare il mio libro ovunque mi chiamino. In questo sistema itinerante ho la possibilità di parlare sia con chi crede sia con chi non lo fa». I proventi del libro saranno destinati all’attività di un amico frate in Eritrea impegnato nella costruzione di pozzi d’acqua per le popolazioni indigenti di quel Paese.
Capitoli importanti della vita di De Giorgio sono legati proprio a quella Madonna di Medjugorje cui molti si rivolgono in preghiera da quel 24 giugno 1981 molti credenti e soprattutto malati. «Ci sono stato dal 87 al 91. Dopo è scoppiata la guerra e non ci sono più andato per 19 anni. È un luogo in cui non si arriva per caso, ma perché si è chiamati e, in fondo, lo siamo tutti solo che il rumore del mondo non permette di sentirlo». Prosegue: «”Ogni giorno, anche prima della malattia, chiedevo la grazia di poterci tornare, era come una preghiera quotidiana. Ho calcolato quasi 7mila suppliche, poi, finalmente ci sono tornato dopo la malattia». Una malattia che non ha fermato la vita di Antonello: «Giocavo anche mentre facevo la chemio. Era un segnale importante, soprattutto per le mie figlie che dovevano vedermi vivo». Una passione, quella per il basket che ha sempre avuta sia da giocatone, nelle fila della Mina di Induno Olona, sia da allenatore. Forse un azzardo giocare in quelle condizioni, ma in realtà una circostanza che richiama la teoria delle tre F, riportata sul libro: fede, famiglia e follia.
«Non mi sentirete mai parlare di miracoli, però. Ho risposto bene alle cure. Un miracolo non è essenzialmente un prodigio, ma si verifica in ogni istante della mia vita. Se uno ha una fede profonda quando arriva la croce ha il coraggio di portarla e di guardarla negli occhi, se uno crede non ha poi questa grande paura. Sono sicuro che siano serviti anche i gruppi di preghiera di amici formati da mia moglie. Sicuramente il Signore non è stato a guardare. Forse è stato anche un premio per mia mamma, che tutti conoscevano a Varese come l’infermiera Mariuccia. Fece un voto quando a mia sorella cardiopatica, appena nata, avevano dato tre anni di vita. In cambio della salute dei figli si è offerta di seguire con la massima dedizione gli ammalati. Lei li ha seguiti senza sosta per cinquant’anni fino al 2000».
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